22 Mar Tre madri, tre figlie e una fiaba
Si tratta di tre donne (pazienti di un trattamento Somatopsicologico) che per un motivo o per l’altro, non hanno avuto la presenza di un padre.
La prima: Sonia, dopo svariati mesi di lavoro, si rende conto di non accettare la sensazione che la propria madre l’abbia sempre rifiutata. Ha sperimentato una “morsa” a livello del torace, dopo un lavoro di ammorbidimento del collo. In questa morsa ha potuto sentire tutto quello che era stato rimosso da sempre: un sentimento di dolore a cui non riesce a dare spiegazione, di cui non si era mai accorta, impegnata com’era a costruire una realtà di apparente benessere.
Con tutte le sue azioni, il suo modo di interagire e di spiegare agli altri come stanno le cose, di descrivere sé stessa e la propria vita, dimostra la volontà di nascondere a sè stessa questo rifiuto (1) ed edifica continuamente la presenza di una madre immaginaria. In un certo senso, la “impone”. Anche se vive esperienze in cui palesemente non viene amata e rispettata, le capovolge in una specchio deformato, dove il risultato è sempre lo stesso: l’altro è salvato e giustificato, come salvata e giustificata è la figura materna.Questo tentativo di conservare l’immagine di una madre “a tutti i costi” buona, è legato ad una reiterazione: la bambina , un tempo, ha salvaguardato la propria possibilità di sopravvivenza creando un simulacro.
Il vedere oggi quanto la madre abbia fallito nell’accudimento e nel contatto, la porta ad attraversare le paure infantili. Si rende conto che l’adulta di oggi non ne può venire distrutta. La verità emerge, e libera una parte di Sonia che era sempre rimasta agganciata ad un falso sè. Proprio liberando la morsa nel torace, si rende conto che fino a questo momento ha esercitato un controllo sulla propria spontaneità, rimanendo irrigidita per relegare nell’inconscio (e nella corazza muscolare) il dolore del rifiuto.
La seconda: Carla, è arrabbiata con il mondo intero e sfoga la sua rabbia maltrattando i figli, che vede come causa della propria mancanza di libertà e del proprio senso di soffocamento. Il suo percorso, e, in particolare, il lavoro di scioglimento del segmento oculare, la porta a rendersi conto di quanto questa idea che i propri figli la soffochino sia una falsa immagine, un appannamento della sua visione della realtà. Solo quando arriva ad ammorbidire il segmento toracico, contatta l’odio verso la propria madre. Si rende conto di quanto questo odio si trasformi costantemente in una energia distruttiva. Ora “vede bene” il “meccanismo”, e ricomincia da zero: ricomincia dal sentimento originario, rivolgendo la propria attenzione alla relazione con la propria madre definita “farfallina” se non “poco di buono”. Per tutto un periodo se la prende con lei, la incolpa di non averla aiutata a crescere, di non esserle stata vicino dandole un modello positivo e “responsabile”. Poi di nuovo rivolge la sua smania distruttiva verso di sé, incolpandosi di essere una madre indegna e inadeguata. Il ping pong tra queste due modalità (l’accusatrice e l’autoflagellatrice) arrivano un giorno ad esaurirsi ed emerge il lutto profondo legato ad un desiderio che doveva infine essere contattato: il desiderio di un appoggio, di una base sicura, di un porto a cui tornare. Questo desiderio mette le radici nella propria vita e l’aiuta a vedere come il proprio progetto di crescita l’abbia condotta a costruire questo porto sicuro nella famiglia, che dunque per Carla riveste una importante funzione di contenimento. Ora, si tratta di equilibrare il bisogno di spazio personale con il desiderio di contatto e di vicinanza con i figli. Questa ricerca di equilibrio la libera dalla trappola in cui girava a vuoto nella propria storia di madre con due figli, con cui ora riesce a recuperare un buon contatto .
La terza. Francesca sfugge alla propria madre. Ne ha paura perchè la sente divorante. In realtà fugge da questa paura, che cerca di esorcizzare in mille modi, tutti insani. Ma è proprio questa paura che ha bisogno di sentire. Esita, e deve esitare, deve rimanere in contatto con la propria esitazione, prima di arrivare all’altro da sé, che è così pauroso, perchè vissuto con il parametro della relazione primaria.
Cos’è che regge questo equilibrio? La sua costante seduzione di donna, che la porta ad interpretare il ruolo della femme fatale, senza mai coinvolgersi profondamente, senza mai darsi agli uomini che “accalappia” grazie ad un aspetto morbido e illusoriamente accogliente. In realtà, la promessa di disponibilità non si realizza, e questi uomini vengono infine respinti ed allontanati perchè potenzialmente pericolosi. Francesca si ritrova sola. Il meccanismo la fa soffrire, perchè il desiderio profondo è quello di vicinanza. Nel torace, un giorno, appare il suo “vero sè”: una bambina molto piccola ed “esitante”, quella bambina che guardava la madre con desiderio e non riusciva ad avvicinarsi a lei, in quanto percepita come soffocante e prevaricante (“Ancora oggi” -dice- “Quando la incontro mi toglie il respiro”). Il pericolo della vicinanza con il mondo (in particolare con gli uomini) si rivela nel ricordo di un sogno (la capacità di ricordare i sogni si sviluppa nel lavoro con il torace): ci sono una madre e una figlia separate da un grande ragno. C’è lei che fugge e si perde nella lontananza. C’è il bosco minaccioso della vita, con gli alberi che la vogliono ghermire in una lunga notte buia. L’approdo in uno spazio accogliente e amorevole, la stanza della psicologa, che lei paragona alla “casetta dei sette nani”.
La quarta storia è una fiaba reinventata: Biancaneve, una storia d’ombre
C’erano un Re e una Regina e Biancaneve, la loro amata – e tanto desiderata – figlia. Tutti, nel suo regno, la amavano. Un giorno il padre morì e Biancaneve restò sola con la Madre, la Regina. Pian piano successe questo: la regina cominciò a non accettarla, a paragonarsi intimamente a lei, a diventare cattiva. La madre arrivò a tal punto di invidia che chiamò il cacciatore (le forze animali, primitive che prendono il sopravvento), gli ordinò di uccidere Biancaneve e di portarle poi il suo cuore. Perché in realtà ciò che la Madre desiderava più di ogni cosa al mondo era il cuore di sua figlia. Il suo odio nasceva dall’amore mancato della sua stessa Madre, la nonna di Biancaneve, la cui ombra ora si proiettava su Biancaneve stessa.
Il cacciatore però non ebbe “cuore” di uccidere la piccola Biancaneve e la lasciò libera. Biancaneve soffrì molto e a farla soffrire più d’ogni altra cosa fu il non capire come la madre, che le aveva dato la vita, potesse poi desiderare di togliergliela.
Le energie del bosco erano potenti e Biancaneve ebbe paura. Attraversò sette monti e sette valli, attraversò la paura, la rabbia, lo scoraggiamento. Tutto questo attraversò. Infine, quando ormai esausta stava per mollare, incontrò il suo Maestro, sotto forma di sette piccole parti di sé ognuna delle quali doveva sciogliere ed imparare ad amare. Quando ci riuscì visse felice e indipendente.
Intanto la madre era diventata vecchia e, ormai da tempo accortasi dell’inganno del cacciatore, cercò Biancaneve, perché non era cambiata e voleva ancora prenderle la vita. Quando la trovò, la figlia l’accolse nella sua casa, e la madre anziché provare riconoscenza la tormentò. Provò a soffocarla con un laccio, ad avvelenarla con un pettine ed infine con una mela. Questi tentativi però ottennero l’unico effetto di addormentare Biancaneve e confonderla, cosicché non riuscì più a reagire, e neanche a capire come salvarsi.
Finchè arrivò il Principe e Biancaneve si svegliò. Il Principe e la Principessa si avviarono verso il proprio Regno. L’Animus e l’Anima furono finalmente uniti e il percorso era compiuto. L’unità conquistata le permise di non farsi soffocare, avvelenare, addormentare, confondere.
Ancora un interrogativo colse Biancaneve:”Posso abbandonare mia madre?” Una risposta arrivò dal profondo del suo cuore: “Guarda ciò che è” . Si voltò e vide la madre vecchia, stanca e malata. Ed ebbe compassione. Infine una voce si fece strada, una voce che disse:”Non puoi darle ciò che lei vuole, non puoi darle la tua vita” ma puoi accettare di essere nata da questa donna e ringraziare le forze che si sono spinte dalla nonna alla madre per trasmettere la Vita. E Biancaneve amava tanto la Vita.
Si occupò della vecchia e stanca madre che, infine, mostrò i suoi due volti, uno buono e amorevole e l’altro distruttivo. Entrambi li mostrò e Biancaneve capì che i due volti erano della stessa Madre, ed erano stati della Madre della Madre, e così via nel remoto snodarsi delle Generazioni.
Guardò in Sè, e riconobbe i germi delle due facce: se ne appropriò. Ella era Una, così come il suo corpo e l’ombra che il suo corpo proiettava. Fu la prima volta che una Donna vide che il volto distruttivo della Madre non era altro che l’Ombra proiettata dalla luce. Senza luce, nessuna ombra sarebbe stata possibile. Da allora, grazie a Biancaneve e alla sue progenie, fu possibile trasmettere una nuova Coscienza nelle Generazioni a venire. E tutti vissero gioiosi e consapevoli.
(1) Vale la pena di ricordare che la percezione del rifiuto materno è soggettiva, ovvero può non corrispondere alla realtà, così come è stata. Lo psicologo ha il compito di aiutare il paziente, in base al suo vissuto soggettivo, nel qui ed ora.