02 Mar Perché la speranza non serve

Perché la speranza non serve

(Ovvero come non sopravvivere in tempi di pandemia) 

Da molto tempo ormai si sente parlare di speranza. La speranza che tutto si risolva bene, che tutto possa tornare “come prima”, che un uomo forte ci conduca fuori dal tunnel.

Letta in questo modo, la speranza non è l’immaginazione di altri mondi possibili, ma l’addormentamento delle coscienze.

E’ la perfetta rappresentazione del pensiero unico : c’è un solo mondo possibile, quello conosciuto e raccontato con un amplificatore proprio come nei film di fantascienza dove un leader carismatico non fa altro che ripetere fino alla nausea da un grande schermo che quello è il mondo reale, che quelle sono le soluzioni, che quelle sono le condizioni, e che tutti devono crederci. E’ come stare a teatro, dove l’attore chiede una sospensione del giudizio allo spettatore, lo spettatore deve crederci e basta, deve credere che quelli che camminano e parlano del palcoscenico siano davvero  i personaggi rappresentati. Ma tutto si basa su un patto: tu devi credere che questa rappresentazione sia realtà e per tutto il tempo della rappresentazione. E allora tu puoi solo sperare che andrà a finire bene, perché a quel racconto ti sei affezionato e ti identifichi nella storia. In realtà tu non puoi niente, è il regista che ti porta fin dove vuole lui o fin dove un racconto già scritto ti conduce.

La speranza non è creatività. Non dà scelta. E’ limitata ad un solo orizzonte, mentre invece ce ne sono molteplici. Siamo in gabbia perché speriamo. Perché aspettiamo un lieto fine. Siamo in sala d’attesa.

La speranza presuppone il concetto di attesa.

Se aspetto qualcosa, perdo di vista il presente.

Quello che potrebbe dare forza (contrariamente a quanto possa sembrare) è abolire la categoria della speranza.

Potremmo sostituire la parola speranza con la parola fiducia? Fiducia nella vita stessa?

La fiducia presuppone la perdita del sentimento di onnipotenza e dell’illusione di controllo.

La relazione con la natura e l’osmosi con quello che sta accadendo portano al gesto più intimo dell’abbandono, dello scivolare all’interno degli eventi. Per essere completamente vivente è necessario non voler capire a tutti i costi. La mente non può capire la vita, può solo viverla. Se restiamo in ascolto della vita, della natura e di noi stessi, possiamo sentire – al di là delle apparenze -, che ogni cosa è illuminata, ogni cosa ha un suo posto preciso nel cammino della evoluzione umana. Facciamolo, adesso.

Siamo ora dentro una catastrofe (1) umana, sociale, ambientale, senza precedenti, almeno per quanto riguarda le nostre vite. Se  però viviamo la catastrofe come un rivolgimento insito in un progetto globale, capovolgiamo radicalmente il senso di quello che stiamo attraversando.

Non aspettiamo più, non speriamo che tutto torni “come prima”. La situazione post catastrofe non è mai reversibile.

Quindi proviamo  un’altra strada: attingere a risorse di cambiamento di fronte ad uno snodo che ha senso solo se lo si concepisce all’interno di un cammino globale. La vera libertà è accettare pienamente la vita nel fluire degli eventi.

Smettiamo di aspettare! Cerchiamo dentro il presente ogni modo possibile per espandere la nostra vitalità nel mondo vicino a noi. Verso chi incontriamo adesso e in tutti i modi che ci sono possibili nel qui ed ora.

Propongo di fare un viaggio per sentire di più se stessi, vedere “cosa c’è negli eventi” oltre la narrazione sociale. Fare una capriola, mettersi a testa in giù e rovesciare completamente il concetto di chiusura. La chiusura diventa apertura alla condizione dello stare qui in questo preciso momento e, quindi, riguarda la presenza a se stessi in ogni singolo attimo della vita.

Facciamoci queste domande:

  • Sto aspettando che passi?
  • Sto resistendo e sopravvivendo pensando che un giorno potrò vivere?
  • Accetto quello che accade o lo subisco?
  • Il desiderio, la vitalità fanno parte di ogni giornata della mia vita?

La risposta sincera a queste domande ci porrà di fronte ad un lavoro di liberazione dalle pressioni esterne e di valutazione della realtà al di là degli stereotipi legati al concetto di speranza. Certo, ci sarà da attraversare le nostre paure, le insicurezze, le rigidità e il bisogno di controllo. Questo, però, ha che fare con un movimento vitale che si può compiere ora, grazie a quanto sta accadendo.

(1) catàstrofe s. f. [dal lat. tardo catastrŏpha, catastrŏphe, gr. καταστροϕή, propr. «rivolgimento, rovesciamento», der. di καταστρέϕω «capovolgere» (idea di capriola). –. In matematica, il termine si riferisce soprattutto allo studio della morfogenesi biologica, col sign. di interruzione del continuo, rottura di un equilibrio morfologico e strutturale, e poi generalizzato in quello di processo di morfogenesi (creazione e distruzione di assetti morfologici di qualsiasi tipo), rappresentabile matematicamente su uno spazio topologico. In partic., teoria delle c., complessa teoria formulata dal matematico fr. René Thom (1923-2002), applicabile allo studio di tutti quei sistemi il cui comportamento muta in modo discontinuo al variare in modo continuo di un certo insieme di parametri, mentre non subisce alterazioni qualitative per piccole variazioni di tali parametri (ipotesi di stabilità strutturale); punti di c. (o insieme di c.), insieme di punti (costituenti superfici regolari) che separano le diverse forme di un sistema e il cui attraversamento corrisponde alla morfogenesi, cioè al cambiamento discontinuo del comportamento del sistema e quindi della forma preesistente (c. elementare).